Jean-Luc Godard compie 90 anni e il suo nome appartiene già alla storia. Venerato maestro già da giovanissimo – ma sempre compiaciuto nel comportarsi da solito stronzo, come gli rimproverò l’ex amico Francois Truffaut in una lettera durissima -, da tempo ormai ha fatto perdere le sue tracce. Rifugiatosi in Svizzera, la terra materna, il regista francese vive quasi da eremita a Rolle, paesino di seimila abitanti tra Losanna e Ginevra. Ed è proprio da casa sua, una sorta di set permanente, che continua a studiare ogni tipo di linguaggio possibile da portare sul grande schermo. Scontroso, antipatico, ribelle, sempre in antitesi per il gusto di esserlo, Godard parla ormai solo attraverso le sue opere: sempre più oniriche, sempre più ermetiche. Come l’ultimo film, Le livre d’image. Dove mette a confronto cinema e storia, quasi a voler aggiungere un nuovo capitolo alla sua monumentale Histoire(s) du cinéma, documentario costruito in dieci anni e lungo quasi 300 minuti.
Protagonista assoluto della Nouvelle vague francese, Godard si forma come critico nella rivista Cahiers du cinéma. Dove insieme ai giovani turchi Truffaut, Claude Chabrol e Éric Rohmer, diretti dal leggendario André Bazin, attacca il cosiddetto cinéma de papa, ovvero un certo modo commerciale di fare film in Francia. A questo i giovani turchi si contrappongono in maniera veemente, sposando la cosiddetta politica degli autori che non è altro che una fanatica promozione dei loro registi più amati, da Jean Renoir ad Alfred Hitchcock passando per Nicholas Ray.
Una fucina di talenti che prima di pensare a mettersi dietro la macchina da presa aveva in comune il pallino per la scrittura e il sogno di pubblicare un romanzo per la prestigiosa casa editrice Gallimard. Qualcuno ce la farà, non Godard che però mira con tutto sé stesso ad affermarsi come artista tout court. Perché il cinema è arte, dice, come la pittura. Parlando di Hitchcock, infatti, spiega: “Era un creatore di forme, un pittore e bisognava parlarne come del Tintoretto”.
È uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague, nonché uno dei registi più significativi del cinema francese e internazionale. La sua carriera è contraddistinta da una grande prolificità e soprattutto dalle grandi innovazioni linguistiche apportate al mezzo cinematografico. E’ stato legato in matrimonio con Anna Karina, dal 3 marzo 1961 fino al 1967, anno in cui sposò Anne Wiazemsky. Divorziato nuovamente, si unisce con Anne-Marie Miéville.
La sua carriera cinematografica inizia con la realizzazione del cortometraggio Una femme coquette (1955). Successivamente, produce Opération “Béton” (1958), un documentario breve. Nel 1959, arriva un secondo cortometraggio, basato però su un soggetto di Rohmer. Si tratta di Charlotte et Véronique, ou Tous les garçons s’appellent Patrick con Jean-Claude Brialy nella parte di Patrick.e A questo segue Charlotte et son Jules (1959), dedicato a Jean Cocteau. Con Truffaut lavora invece al corto Une histoire d’eau.
È con queste premesse che si arriva al 1960 e a quella “nuova onda” che spazza via tutte le regole del cinema classico. Gli attacchi sbagliati, il montaggio caotico, la frammentazione della struttura narrativa, le citazioni dei b-movie americani, ma soprattutto il sorriso da canaglia di Jean-Paul Belmondo che insegue sugli Champs-Elysées la dolce e sfortunata Jean Seberg intenta a vendere il New York Herald Tribune: è Fino all’ultimo respiro, l’esordio da brividi di Godard. Un capolavoro che lo rende celebre in tutto al mondo. Un film da poco restaurato e proiettato la scorsa estate in piazza Maggiore a Bologna a cura della Cineteca. E che doveva essere distribuito nelle sale di tutta Italia dall’11 gennaio prossimo. Una delle tante gioie che la pandemia potrebbe negarci. Davvero un peccato, perché con Fino all’ultimo respiro, che diventa il film manifesto della Nouvelle Vague, la storia del cinema avrà un prima e dopo Godard, segnando una data fondamentale. Come quando c’era stata la cesura tra il periodo del muto e quello del sonoro. Bernardo Bertolucci, che l’ha sempre venerato e premiato con il Leone d’oro nel 1983 in veste di presidente di giuria a Venezia, disse in un’intervista che Godard ha la stessa importanza di un mostro sacro come Charlie Chaplin. Ed è impossibile dargli torto, basti pensare all’influenza che il cinema di Godard avrà su tutti i giovani autori americani della New Hollywood, Arthur Penn e Martin Scorsese in testa. E, ancora più avanti, in registi come Quentin Tarantino e Tim Burton che l’omaggeranno chiamando la loro casa di produzione A Band Apart, da una storpiatura del titolo di una delle opere godardiane per eccellenza, ovvero Bande à part.
Fino all’ultimo respiro (1960) con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg e Jean-Pierre Melville narra la storia di un piccolo ladro di automobili che uccide un poliziotto che lo inseguiva per un sorpasso e che si nasconde a Parigi con l’amante americana Patrizia, è l’opera prima più folgorante della storia del cinema.
Maestro anche nel girare con pochi mezzi, pochi soldi e in poche settimane, nei sette anni dopo Fino all’ultimo respiro Godard firma la bellezza di 14 film. Di cui alcuni indimenticabili. Basti citare Questa è la mia vita con protagonista la prima moglie e musa Anna Karina, scomparsa un anno fa, Il disprezzo, dal libro di Alberto Moravia, girato in una straniante Capri con Michel Piccoli e Brigitte Bardot, il già citato Bande à part con cui porta sul grande schermo uno dei balletti più belli e bizzarri mai visti al cinema. E poi l’altro grande capolavoro, di nuovo con Belmondo con a fianco la Karina: Pierrot le fou, in Italia conosciuto come Il bandito delle undici (tagliato dai distributori nostrani che lo trasformano in un altro film). È questo il definitivo urlo libero di Godard, dove i colori forti, la trama fragile e l’esotica isola di Porquerolles come sfondo diventano quasi una summa dell’idea godardiana del cinema e del mondo.
Talvolta si fa ancora sentire, con qualche sparata delle sue, come quando ha detto che fosse stato nel presidente francese Francois Hollande avrebbe nominato premier Marine Le Pen solo “per smuovere un po’ le cose”. E non gli è parso vero quando nel 2010 Hollywood, che sempre l’ha snobbato ricambiata da un odio viscerale, gli ha assegnato l’Oscar alla carriera. Dando all’ineffabile Jean-Luc l’occasione di rinunciare al ritiro della statuetta adducendo la sua allergia ai viaggi in aereo soprattutto perché avrebbe dovuto rinunciare per troppe ore al suo inseparabile sigaro, lui fumatore incallito (di culto è ormai il suo cortometraggio – si trova su Youtube – sulle sigarette svizzere Parisienne). Non manca poi, quando ne ha l’opportunità, di cantare il de profundis al cinema, definendolo ormai morto sotto il peso soverchiante della televisione e del denaro. Ma di sicuro anche oggi, sempre più misantropo e inaccessibile e con 90 candeline da spegnere il 3 dicembre, Godard non se ne sta con le mani in mano. E sta pensando a un nuovo movimento di macchina, una pennellata delle sue, con cui incantare i cinefili che ancora lo amano. Nonostante tutto.
l suo secondo successo è Questa è la mia vita (1962) con Anna Karina, vincitore del Premio Pasinetti e del Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia.
L’anno successivo, realizza dalla commedia antibellica “I carabinieri” di Beniamino Joppolo Les carabiniers (1963), un omaggio a Jean Vigo. Il produttore italiano Carlo Ponti (e altri finanziatori americani), a questo punto, gli chiede di adattare il romanzo di Alberto Moravia “Il disprezzo“. Godard accetta e con la partecipazione di Brigitte Bardot e Michel Piccoli Il disprezzo (1963) diventa uno dei più grandi successi commerciali.
Nel 1964, Godard e Anna Karina – che lui sposa nel 1961 – fondano la casa di produzione Anouchka Films. Nel 1965, Godard torna sul grande schermo con due film: Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (vincitore dell’Orso d’Oro e tratto dal poema “Capitale de la douleur” di Paul Éluard) e lo stravagante Il bandito delle undici con Belmondo e Karina (anche se lui avrebbe voluto Richard Burton e Sylvie Vartan), realizzato senza sceneggiatura (anche se tratto dal romanzo “Obsession” di Lionel White). Alla fine del 1965, prendendo due novelle di Guy de Maupassant, ritorna al cinema con Il maschio e la femmina (1966) con Brigitte Bardot, vincendo l’Interfilm Award e lo Youth Film Award al Festival di Berlino.
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